Mi sono seduta su una panchina bolognese e ho scritto.

È bella questa panchina bolognese. Mi accoglie nella mia attesa. Quella di un volo, puramente concreto. 
Alle 20 il gate chiude, ma io ho tutto il tempo per starmene qui. Con il naso all’insù, abbracciata da questo verde caloroso, dalle foglie già tendenti al giallo, alcune morte, alcune semplicemente stanche. 
Giacciono per terra, mosse lievemente dal vento che smuove questo mercoledì di settembre. 
Il ragazzo della panchina accanto strimpella con la chitarra, chissà se è italiano. Ha i capelli ricci e canta in inglese. Non riesco a vedere i suoi occhi, nascosti dietro lenti scure. Sarà anche lui un viaggiatore, come me. Lo deduco dallo zaino, troppo grande per una semplice uscita al parco. 

E’ bella quest’aria settembrina. C’è un sole timido, ma si sta bene. Ho tante cose da raccontare. 
Come sempre un viaggio aiuta a ritrovarsi. Si abbracciano nuove dimensioni, sempre più profonde, sempre più complicate, sempre più ricche. Aiuta a tagliare i rami secchi, i nuovi propositi prendono il sopravvento e i neuroni si rigenerano. 
Il viaggio è il tempo della raccolta: prendi tutto quello che hai seminato prima e vedi se ti può servire. 

Adesso il ragazzo sta cantando una canzone che conosco. Deve essere James Blunt. Sì, è proprio lui. Nonostante la stanchezza che mi porto dietro, riesco ancora ad essere lucida. 
Vorrei qualcosa dei Marlene Kuntz, non so perché ma preferirei qualcosa di più familiare. O magari Daniele Silvestri, anche se nell’ultimo mese ho consumato i cd a furia di ascoltarlo. Chissà perché quando siamo lontani dalla nostra vita di sempre, ci appelliamo alle piccole cose, a quelle sfumature che possano riportarci l’aria di casa anche solo nei pensieri. 

Nel frattempo nei miei pensieri fluttua un profumo, quello del mare, quello del grano, quello della salsedine tra i capelli. Mi mancano gli occhi di Uno, sembra banale. Eppure mi mancano. Mi mancano perché mi fanno ridere, perché si capiscono subito con i miei, perché si incastrano l’uno nell’altro senza dire una parola. L’amicizia è un dono strano, dà e toglie senza chiedere permessi. È strana questa mancanza, ma è la prima cosa che mi viene in mente. 
Poi mi mancano i nostri giri in bici, le ore passate a parlare dei sogni, degli alberi e delle case. 
Chissà come sarà vivere lontano. Se diventeremo più complici o ci lasceremo divorare dalla distanza. Non dovrei pormi queste domande, ma mi viene naturale. Sì, perché forse la mia vita tra qualche mese sarà diversa. Sarà in un altro dove. E dovrei smetterla pure di metterci tutti quei forse davanti. Ma non posso fare altrimenti. Le paure si ancorano alle incertezze. 

Nel frattempo il ragazzo ha smesso di suonare, ha tra le mani un libro di Erri De Luca, I pesci non chiudono gli occhi. L’ha raggiunto una ragazza, dalla pelle bianca e le labbra rosse. Mangiano noccioline, credo. Poco importa. Sono gli sguardi reciproci a nutrirli, lo intuisco. O semplicemente mi piace credere sia così. 

Decido di mettermi le cuffie, di ascoltare qualcosa che possa ispirarmi, una musica che possa essere nutrimento per le mie orecchie. Sono indecisa su cosa scegliere. Ho già cambiato idea. Così seleziono tutta la musica che ho sull’mp3 e metto la selezione random. Lui parte con una canzone degli Afterhours e non mi dispiace. Loro mi ricordano sempre la mia adolescenza. Le serate passate in macchina, a consumarsi la pelle, le labbra, le mucose. Era bello quando tutto era più leggero. Quando bastava fare tardi la sera per essere felice. Ma la felicità è una schifezza se non le insegni a vivere. E si perde se non la trasformi in gioia. E’ un po’ come quei giocattoli in plastica, dopo un po’ si rompono. 

Vorrei rimanere così per l’eternità, fermare l’attimo. Bloccare l’orologio, il sole, anche se non c’è, spegnere le luci della città. Fotografare ogni istante per poi nasconderlo nel cassetto dei sogni. Mi sento così leggera che non ho bisogno di nulla. Semplicemente di me.

[Grazie al wifi bolognese!]

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